Scuola
di Gomme, Scuola nel Deserto, Terra dei Bambini: fra le tre,
quest’ultima era la più bella e la più pericolosa. Costruita
nella zona calda della striscia di Gaza, 10 chilometri scarsi per
milioni di persone.
130 bambini del villaggio di Um Al Nasser
potevano almeno andare a scuola fino a qualche settimana fa. Prima
che la struttura costruita in 6 mesi, nel 2012, dagli architetti
della cooperativa milanese ARCò, (utilizzando sacchi di nylon
riempiti di terra) fosse rasa al suolo. La Terra dei Bambini era una
struttura finanziata dalla Cooperazione Italiana e dalla CEI
(Conferenza Episcopale Italiana) e rappresentava un esempio di
architettura di pace sostenibile di altissimo livello: era dotata di
pannelli fotovoltaici che davano corrente all’intera comunità,
utilizzava un impianto di fitodepurazione delle acqua per renderle
potabili, era parte di un progetto didattico e formativo di grande
spessore, era dotato di uno spazio sociosanitario diviso per sessi e
di una cucina di recente inaugurata.
Incontriamo
Carmine Chiarelli (uno degli architetti di ARCò) in occasione di una
sua lezione gentilmente offerta all’iniziativa Sferracavalli, il
Festival Internazionale di Immaginazione Sostenibile che si è svolto
a Lizzano, con una particolare attenzione verso queste terre in
conflitto.
Qual
è la posizione ufficiale di ARCò sull’accaduto?
Siamo
un studio giovane che ha avuto la possibilità di progettare e
realizzare interventi sperimentali che hanno segnato il nostro
percorso professionale e sono diventati punti di riferimento per
l’architettura sostenibile. Abbiamo sempre lavorato in condizioni
particolarmente difficili, estreme in certi momenti, e abbiamo sempre
avuto questa spada di Damocle della possibile demolizione per ognuno
degli interventi fatti. Le ingiunzioni di demolizioni che hanno visto
protagonista la Scuola di Gomme ne sono una prova, ma ad un certo
punto ci si abitua e si convive con questa possibilità, che però
sembra sempre lontana. La demolizione della Terra dei Bambini ci ha
scosso, facendoci comprendere quanto questo pericolo sia reale. Il
modo terribile in cui sia avvenuto, cioè all’interno di un attacco
di terra, in quella che è una vera guerra ad armi impari, ci ha reso
ancora più tristi ed increduli. Dispiace vedere il proprio lavoro,
il lavoro di una equipe fatta di tecnici italiani e locali, venga
distrutta come un qualunque obbiettivo militare. Spiace vedere il
lavoro di mesi, risorse economiche e umane spese, cancellate con così
tanta facilità e senza per noi un motivo reale. Ad ogni modo
restiamo architetti e il nostro lavoro continua ad essere quello di
progettare, pensare e disegnare per migliorare le condizioni di vita
delle persone e dei luoghi in cui operiamo. Una cosa che negli anni
di lavoro al fianco di questo popolo, vessato da una guerra
psicologica e continua fatta di sgomberi e demolizioni anche meno
clamorose di quella che ci ha toccato, abbiamo imparato è la
pazienza con cui affrontare questi eventi con la forza d’animo di
pensare alla prossima ricostruzione.
Credi
ci sia la possibilità di ricostruire?
La
possibilità non la escludiamo, ma ad oggi è più una speranza che
una concreta prospettiva. Sappiamo che le autorità italiane stanno
valutando la possibilità di chiedere un risarcimento ad Israele per
il danno causato ad un edificio costruito con il cofinanziamento tra
gli altri della Cooperazione allo sviluppo Italiana, la CEI e del
Ministero per gli Affari Esteri. Ho letto anche recenti dichiarazioni
del Presidente Vendola, il quale ha affermato che la Regione Puglia
si impegnerà a trovare i fondi per la ricostruzione. Va ricordato
infatti che la Regione Puglia ha co-finanziato l’ampliamento
dell’asilo, un volume nel quale è stato inserito un piccolo
ambulatorio pediatrico.
Prendiamo
quindi queste informazioni con la dovuta cautela del momento, consci
del fatto che la demolizione ha creato un vuoto che sicuramente,
passata la tempesta bisognerà colmare.
I
vostri cooperanti sono ancora sul posto o sono stati fatti tornare in
Italia? Come raccontano la situazione in corso rispetto alla loro
esperienza di profonda conoscenza del territorio e di vissuto del
conflitto?
Al
momento nessun membro di ARCò è presente in Palestina e a Gaza, il
nostro responsabile per la direzione dei lavori nei cantieri sta
seguendo la realizzazione di un orfanotrofio in Bolivia. I mesi
passati nel seguire i lavori ci hanno portato a vivere da vicino
molte situazioni che le comunità palestinesi con cui lavoriamo sono
costrette a subire ogni giorno. Sicuramente le tensioni quotidiane
possono spiegare in parte le azioni e le reazioni di questi ultimi
giorni, ma la complessità del conflitto non si esaurisce alle ultime
settimane o alla nostra esperienza. La sproporzione dell’azione
militare israeliana è palese, ingiustificata, sicuramente non
favorisce il dialogo e la costruzione di una pace reale e duratura.
Reale perché quello di cui ci siamo resi conto è che la guerra non
si fa solo con i raid aerei, ma ogni giorni con azioni intimidatorie,
di riduzione delle libertà personali e le limitazioni dei diritti
fondamentali dell’uomo. Per non parlare dell’assoluta
arbitrarietà dell’interpretazione degli accordi siglati a livello
internazionale, nel silenzio assenso proprio della comunità
internazionale. In questo scenario il conflitto di questi giorni non
ci stupisce più purtroppo, ma la sorpresa positiva è che da quando
abbiamo iniziato a lavorare nei territori occupati palestinesi ad
oggi, grazie probabilmente a social media, più informazioni
viaggiano in tempo reale, e il tema della Palestina è sempre più
presente nel dibattito quotidiano. A noi piace pensare che le nostre
scuole hanno contribuito ad accendere i riflettori su questi temi.
Tengo a precisare comunque che noi rimaniamo architetti e le nostre
azioni sono volte a fare architettura nell’unico modo che ci sembra
possibile, attraverso un coinvolgimento social. L’aspetto politico
è una conseguenza non un fine.
Fonte: www.progettoalchimie.it